Attack of the Lederhosen Zombies ci fa entrare quasi immediatamente nel vivo della vicenda, creando riusciti momenti di tensione, alternati a scene volutamente demenziali. Un demenziale, il presente, di quelli che fanno bene allo spirito, che non si rivela mai eccessivo o gratuito e che, al suo interno, cela anche un grande amore per la settima arte.
Non punta a dare precise risposte in merito, il presente Future Baby. E, allo stesso modo, le spinose questioni morali che potrebbero essere sollevate in seguito alla sua visione, vengono soltanto lontanamente toccate, ma mai realmente approfondite. Una scelta, la presente, più che apprezzabile, dal momento che si capisce fin da subito che la regista Maria Arlamovsky ha voluto mettere in primo piano soprattutto l’intimo dei personaggi di volta in volta presentati, oltre, ovviamente, ai progressi che, al giorno d’oggi, sono stati ottenuti mediante la ricerca.
Una messa in scena, questa adottata in With God’s Grace, che non punta a un’estetica eccessivamente marcata o elaborata, ma che – in un lungo viaggio dal Gambia all’Italia, fino ad arrivare, anche soltanto virtualmente, a Düsseldorf – punta sostanzialmente all’essenziale, per una riuscita forma di cinema del reale che, attraverso la storia di un singolo personaggio, ci racconta, in realtà, la storia di migliaia e migliaia di persone.
Non servono, in Der zornige Buddha, troppe didascalie a illustrarci la situazione, così come sarebbero del tutto superflui eventuali virtuosismi registici. Stefan Ludwig ha deciso di mostrarci la realtà così com’è e così come lui la vede, senza censura alcuna, con tutti i suoi momenti di gioia e condivisione, e i suoi attimi di frustrazione e di sconforto.
Non mancano, all’interno di Falls ich es schaffe oder Pardon my donkey thumbs citazioni alla storia del cinema stesso. E Pawel Szostak, dal canto suo, non tenta assolutamente di celare questa sua fascinazione nei confronti della settima arte, ma, al contrario, sembra implicitamente sostenere che la stessa – probabilmente – sia l’unica risposta e l’unica soluzione agli interrogativi precedentemente sollevati.
Con toni brillanti e una costante ironia di fondo, in Wie ich berühmt werden wollte assistiamo a una commedia classica e dalla forte impronta televisiva dove evidenti sono i segni di una certa amatorialità di fondo.
La macchina da presa di Sophia Hörmann si rivela, in Endstation Seestadt, particolarmente abile nel rappresentare i corpi degli attori, in continue danze dove, in un intrecciarsi di corpi, braccia e gambe, non si distingue più un singolo individuo e dove tutto, fin da subito, assume un significato simbolico e spirituale.
Korida è un prodotto sì non sempre perfetto, sì a tratti ridondante, ma anche – e soprattutto – un lavoro sincero e appassionato che, nell’insieme, riesce bene a fotografare una realtà come quella delle corride, per un affresco variegato e variopinto di un popolo – quello croato – che riesce comunque e con orgoglio a difendere le proprie tradizioni e la propria identità nazionale.
In The impossible Picture, interessante esordio della giovane Sandra Wollner, le immagini che compaiono sullo schermo ci mostrano inizialmente una famiglia numerosa, solita rapportarsi all’autoritaria figura della nonna. Momenti di convivialità registrati intorno a una tavola imbandita si alternano a scene in cui le giovani donne di casa sono solite dividere il letto per un riposino pomeridiano in un caldo pomeriggio estivo. Poi, improvvisamente, la musica cambia. E così i toni dell’intero lungometraggio assumono pian piano i contorni del soprannaturale.
C’è davvero da sbizzarrirsi nel maneggiare tutti i numerosi spunti che la vita di questo geniale artista ha da offrirci. Tutto sta nel saperli gestire bene, dando vita a un lavoro mai scontato o didascalico, che sappia tracciare un ritratto il più possibile appassionato e fedele di una delle più importanti personalità artistiche di tutta l’Austria. E Dieter Berner è perfettamente riuscito in tale mai facile e per nulla banale impresa con il suo Egon Schiele.