Introduzione all’Oscuro, intimo, doloroso, profondamente introspettivo è, a detta dello stesso autore, quanto di più “spettrale” egli abbia mai realizzato Un film di luci, di ombre, di immagini, ora ben definite, ora irrimediabilmente sfocate.
In L’Animale, Katarina Mückstein, malgrado la poca esperienza dietro la macchina da presa, ha saputo ritrarre il mondo degli adolescenti con encomiabile maestria, dimostrandosi in grado di trattare temi non facili con una leggerezza che tanto sta a ricordare la scuola francese.
In Styx di Wolfgang Fischer le acque in cui naviga la barca della protagonista, esattamente come il fiume Stige, sono teatro di morte, ma anche di rinascita e il tutto si fa importante allegoria della vita e della morte, nonché fedele ritratto dell’umanità.
In The Interpreter è proprio l’elemento della lingua uno dei fattori chiave che mettono in scena il rapporto non solo tra due uomini, ma, in senso lato, tra due intere nazioni, in cui una delle due ha un forte debito nei confronti dell’altra.
In Departure ogni singolo elemento è carico di un forte simbolismo e, allo stesso tempo, riesce ad arrivare allo spettatore in modo diretto, parlando un linguaggio universale, classificandosi come una vera e propria apologia dei veri valori e della libertà.
Con il volto di una somigliante Marie Bäumer vediamo una Romy Schneider umana, fragile, debole, provata dalla vita e che ha come tallone d’Achille il difficile rapporto con i figli.
Malgrado la molteplicità di validi prodotti al proprio interno, il cinema austriaco viene troppo spesso considerato come una sorta di “cinema suddito” della ben più vasta cinematografia tedesca, sebbene, dalle origini del cinema sino ai giorni nostri, di interessanti sorprese in questo ambito ce ne siano state regalate parecchie.
Ciò a cui assistiamo in Happy end è un vero e proprio crescendo di emozioni in pieno stile hanekiano. Non vi sono né buoni, né cattivi, ognuno è vittima e carnefice allo stesso tempo. Compresi i più giovani.
Mister Universo, ultimo lavoro di Tizza Covi e Rainer Frimmel, ha come scopo quello di catapultarci in un mondo a sé, facendoci perdere il contatto con la realtà e facendoci dimenticare tutto ciò che ci circonda.
Abel il figlio del vento, per la regia di Gerardo Olivares e Otmar Penker è una favola senza tempo che presenta al suo interno non pochi elementi che lo rendono inevitabilmente retorico e melenso.