Malgrado diverse pellicole – molte delle quali particolarmente degne di nota – realizzate dalle origini del cinema, fino ai giorni nostri il cinema horror in Austria non ha mai ancora visto un gruppo di cineasti prendere una comune direzione per dar vita a una vera e propria corrente. Almeno fino a oggi.
Durante la Prima Guerra Mondiale, grande importanza ha avuto la figura dell’antropologo e cineasta austriaco Rudolf Pöch, padre indiscusso del cinema etnografico austriaco, il quale, per primo, chiese alle autorità il permesso di poter utilizzare i nuovi mezzi della fotografia e del cinema al fine di poter studiare, di volta in volta, le diverse etnie di tutto il mondo, partendo dai prigionieri di guerra russi.
Intenzionato – almeno per quanto riguarda questo suo esordio – a seguire (almeno in parte) le orme del padre, dedicandosi al genere horror, Daniel Prochaska si è divertito, in questo suo The creepy House, ad attingere a piene mani da cult del passato, al fine di dare vita a una sorta di coming-of-age dai toni leggeri e dai risvolti inquietanti, dedicato soprattutto a un pubblico di giovanissimi.
Schatten und Licht sta a rappresentare una vera e propria perla all’interno della cinematografia austriaca, perfettamente collocato all’interno di un contesto che vedeva un copioso numero di giovani cineasti che si erano posti l’obiettivo di dar vita a un cinema del tutto innovativo, finalmente libero dai dettami che avevano caratterizzato la produzione austriaca nei decenni precedenti.
Nel Radetzkymarsch di Axel Corti (terminato da Gernot Roll dopo la morte improvvisa del regista), parallelamente alla parabola sull’impero v’è un particolare focus sul rapporto padre/figlio e su quanto i due protagonisti non siano mai riusciti a dirsi. Il tutto messo in scena grazie anche alle ottime performance di un ricercato cast, all’interno del quale si distingue soprattutto il grande Max von Sydow.
Da un raffinato lavoro su fotografie d’epoca Liebe war es nie di Maya Sarfaty trae la sua più brillante intuizione, creando, di volta in volta, ulteriori fotomontaggi, i quali, sempre più articolati e attentamente montati in 3D, ci conducono per mano nel mondo di Helena e Franz, per una storia d’amore e di sofferenza dove un consueto approccio documentaristico lascia il posto a una drammatizzazione che ben sa coniugare materiali del passato e tecniche del presente.
Si intuisce subito come O Palmenbaum non sia un lungometraggio dalle grandi pretese. Il suo scopo principale è quello di mettere in scena le bizzarre vicende delle famiglie Treichl/Moor, che tanto erano piaciute al pubblico in Single Bells. E la cosa, vista in quest’ottica, funziona, soprattutto se si pensa che, rispetto a numerosi altri sequel, non viene mai ripresa la struttura del precedente lungometraggio, al fine di crearne una sorta di copia carbone.
Fu la pittrice e cineasta Maria Lassnig a coniare la teoria della “consapevolezza del corpo”. Nei suoi dipinti – così come nei suoi film – le figure umane rappresentate – molte delle quali autoritratti – ci appaiono sovente incomplete, in pose a volte innaturali, perfetto specchio della società del tempo, costantemente osservata e criticata. Ed è proprio il suo scagliarsi contro il materialismo, oltre a uno spiccato femminismo, a fare da filo conduttore in tutti i suoi lavori.
Un lavoro, il presente Wired for Music– Inside the Wiener Symphoniker, che trasuda passione, che si identifica fin dai primi minuti con i suoi protagonisti, che segue gli stessi in modo discreto e confidente e che, a tratti, pecca soltanto di qualche dialogo eccessivamente studiato a tavolino che finisce inevitabilmente per perdere di mordente.
Fuchs im Bau, il nuovo lungometraggio del regista Arman T. Riahi, inaugura la Diagonale’21. Il festival del cinema austriaco è programmato come evento di presenza e si svolgerà secondo un rigoroso protocollo di sicurezza Covid-19 dal 16 al 21 marzo a Graz.