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di Michael Haneke
voto: 9
Funny Games (Michael Haneke, 1997) non è un semplice attacco al mondo altoborghese. In Funny Games, infatti, il discorso sociale è presente, ma, in qualche modo, viene marginalizzato. Ciò che qui viene effettuato, infatti, è innanzitutto un raffinato esperimento metalinguistico, in cui vediamo innanzitutto un’attenta riflessione sulla messa in scena della violenza e sul potere del cinema di plasmare la realtà a proprio piacimento, al fine di risvegliare nello spettatore le più disparate emozioni.
La casa sul lago
Un film in cui ogni singolo fotogramma assume una ben precisa valenza, Funny Games. Già, perché, di fatto, il regista Michael Haneke ha realizzato con questa sua importante opera non soltanto un sottile, raffinato (e alquanto sadico, nell’accezione più ampia del termine) horror psicologico. No. Funny Games è, in realtà, molto di più. E nella sua estetica studiata fin nel minimo dettaglio si presenta come un costante, estenuante e altamente disturbante dialogo tra il regista (o i registi, come a breve vedremo nello specifico) e il pubblico.
Già, il pubblico. Un film è quanto di più intimo un regista possa regalare al suo pubblico. In tal senso, particolarmente interessante e la teoria di derivazione freudiana secondo cui l’artista, nel creare un’opera d’arte, è la sublimazione dell’esibizionismo, mentre il pubblico, al contempo, può dare sfogo, durante l’osservazione dell’opera stessa, a ogni suo istinto voyeuristico e masochistico. Michael Haneke lo sa bene. E con questo suo Funny Games si è divertito a sfidare il pubblico in prima persona, costringendolo a considerare la violenza nel modo in cui, di fatto, andrebbe considerata, ossia come qualcosa di gratuito, di ripugnante. A differenza di quanto spesso accade nell’ambito di altre opere cinematografiche, in cui, grazie a un particolare effetto catartico, il pubblico stesso è portato a immedesimarsi in chi la violenza la pratica.
Tale complessa operazione viene attuata, dunque, nel momento in cui assistiamo alle vicende di una famigliola allegra e spensierata che si dirige con la propria auto (rigorosamente ripresa in plongé, come già abbiamo visto durante l’apertura di Shining di Stanley Kubrick) verso una casa sul lago, al fine di trascorrere lì le vacanze estive. La mamma Anna (impersonata da Susanne Lothar), il padre Georg (Ulrich Mühe) e il loro figlioletto Schorschi (Stefan Clapzynski) si divertono a indovinare l’autore di ogni brano di musica classica che ascoltano alla radio. Nel momento in cui, finalmente, vediamo i protagonisti in volto, però, accade qualcosa di inaspettato: un’assordante musica extradiegetica (Bonehead di John Zorn) si contrappone fortemente a quanto abbiamo ascoltato e stiamo vedendo, lasciandoci presagire qualcosa di terribile.
Tale disturbante sensazione che a breve la tranquillità della famiglia sia destinata a finire viene rinnovata pochi secondi dopo, ossia nel momento in cui i protagonisti si fermano con la macchina davanti alla villa di alcuni vicini di casa, notando che questi ultimi sono piuttosto nervosi e che insieme a loro sono presenti due misteriosi ragazzi vestiti di bianco (e anche qui torniamo a pensare a Kubrick e al suo Arancia Meccanica). In pratica, già in questi primi minuti è presente tutto il film. Eppure, il sottile gioco con lo spettatore non ha ancora avuto inizio.
Nel momento in cui i due ragazzi, Paul e Peter (impersonati da Arno Frisch e Frank Giering), entrano in casa dei protagonisti con una banale scusa e presentandosi in modo eccessivamente cortese, ha inizio una vera e propria escalation di violenza. Cosa vogliono questi due ragazzi? Perché si divertono a torturare dapprima psicologicamente, poi fisicamente, la suddetta famiglia? Ufficialmente, dunque, ha inizio lo spettacolo. Uno spettacolo in cui lo spettatore viene continuamente tirato in causa (più di una volta, infatti, capita che lo stesso Paul si rivolga direttamente al pubblico), in cui le scene di violenza non ci vengono quasi mai mostrate (ma di cui possiamo sentire chiaramente i rumori fuori campo), in cui noi stessi ci sentiamo torturati, costretti a vivere quel supplizio a cui sono sottoposti i protagonisti.
Michael Haneke sa prendersi i suoi tempi e, soprattutto, sa bene in che modo direzionare la sua macchina da presa. E in Funny Games l’attesa di scoprire cosa siano quegli atroci rumori che abbiamo appena sentito può diventare decisamente straziante (come quando, ad esempio, sentiamo uno sparo e le successive urla di Anna, mentre, nel frattempo, vediamo Paul che, tranquillo, si prepara un panino in cucina).
Funny Games, dunque, non è un semplice attacco al mondo altoborghese (“Voi siete dalla parte loro. Su chi scommettete? Pensate davvero che abbiano la possibilità di vincere?”, afferma a un certo punto Paul, rivolgendosi direttamente al pubblico). In Funny Games, infatti, il discorso sociale è presente, ma, in qualche modo, viene marginalizzato. Ciò che qui viene effettuato, infatti, è innanzitutto un raffinato esperimento metalinguistico, in cui vediamo innanzitutto un’attenta riflessione sulla messa in scena della violenza, sul potere del cinema di plasmare la realtà a proprio piacimento, al fine di risvegliare nello spettatore le più disparate emozioni.
In tal senso, Haneke ci mostra, con il dovuto distacco, come sia il regista stesso a decidere quali emozioni lo spettatore debba di volta in volta provare. Possiamo tranquillamente affermare che a Paul e Peter sia addirittura stato affidato il compito di fare da “registi interni” al film, non soltanto – come già menzionato – rivolgendosi direttamente al pubblico, ma anche prendendosi la libertà di mandare indietro il film, nel momento in cui Anna, finalmente, riesce ad afferrare il fucile e a sparare a Peter. Per lo spettatore, dunque, non è contemplato nessun momento di sollievo, né di catarsi. Il film torna indietro e le torture continuano. Senza possibilità di tregua alcuna.
Michael Haneke sa il fatto suo. E sa anche giocare sapientemente con inquadrature e attese (particolarmente crudo, ad esempio, è il piano sequenza di dieci minuti in cui Anna, rimasta finalmente sola in casa con suo marito e il suo figlioletto appena ucciso, cerca di riprendersi e di trovare una via di fuga). Il suo Funny Games è un’opera ben più complessa e stratificata di quando inizialmente possa sembrare. Un sottile, continuo gioco tra regista e spettatore, in cui, alla fine, è sempre e comunque il Cinema a fare da protagonista assoluto. Dieci anni dopo la sua realizzazione, ossia nel 2007, Haneke ha deciso di girarne un remake statunitense (Funny Games U.S.), cambiando solo il cast e mantenendo le stesse inquadrature e la stessa sceneggiatura. Ma questa è un’altra storia.
Titolo originale: Funny Games
Regia: Michael Haneke
Paese/anno: Austria / 1997
Durata: 108’
Genere: drammatico, thriller
Cast: Susanne Lothar, Ulrich Mühe, Arno Frisch, Frank Giering, Stefan Clapczynski, Doris Kunstmann, Christoph Bantzer, Wolfgang Glück, Susanne Meneghel, Monika von Zallinger
Sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Jürgen Jürges
Produzione: Filmfonds Wien, Wega Film, ORF