This post is also available in:
Deutsch (Tedesco)
English (Inglese)
In occasione della Viennale 2022 la regista Claudia Müller ha presentato il suo documentario Elfriede Jelinek – Language unleashed, incentrato, appunto, sulla figura della famosa scrittrice, nonché Premio Nobel per la Letteratura. Cinema Austriaco ha avuto l’occasione di fare quattro chiacchiere con lei e di farsi raccontare qualcosa in più circa questo suo lavoro e circa la sua carriera. Intervista a cura di Marina Pavido.
Marina Pavido: Com’è nata l’idea di realizzare Elfriede Jelinek – Language unleashed?
Claudia Müller: Volevo realizzare da anni un film su Elfriede Jelinek, ma sapevo anche che lei non rilascia interviste. Ho realizzato brevi lavori per la televisione e poi, tre o quattro anni fa, ho incontrato due redattori per cui ho lavorato per molto tempo, che mi hanno detto: “Ora devi fare un film su Elfriede Jelinek”. Conosco le sue opere da molto tempo e l’ho sempre ritenuta una straordinaria artista. Sapevo che sarebbe stato difficile approcciarsi ai suoi lavori, ma sapevo anche che era arrivato il momento di iniziare questo nuovo progetto.
M. P.: Nel Suo film la biografia di Elfriede Jelinek viene solo brevemente menzionata. Questa è stata una sua scelta già prima di iniziare con le riprese?
C. M.: Sì, già dall’inizio sapevo che negli archivi della ORF c’era molto materiale su di lei ed ero anche a conoscenza di diverse nozioni riguardanti la sua vita, come, ad esempio, il difficile rapporto con sua madre – che l’ha molto influenzata dal punto di vista psicologico – così come anche di numerosi cliché. Quello che mi interessava era solo accennare brevemente alla sua biografia soltanto per poter far sì che alcuni suoi lavori potessero essere meglio compresi. Non volevo concentrarmi in particolare sugli aspetti psicologici, quanto sull’impatto emotivo delle sue opere. Per questo mi sono limitata a raccontare solo qualche avvenimento essenziale, come, appunto, il difficile rapporto con sua madre, la sua formazione in una scuola cattolica e le origini ebraiche di suo padre.
M. P.: Nel Suo film viene dedicata molta attenzione ai luoghi e agli spazi, in particolare quando le voci fuoricampo leggono testi dell’autrice. Cosa simboleggiano questi luoghi, soprattutto quando si tratta di spazi aperti?
C. M.: Il paesaggio nel mio film è considerato quasi uno sfondo, una tela da proiezione. In questo caso si tratta principalmente di paesaggi stiriani, dove spesso molte delle sue opere sono ambientate. In Stiria, inoltre, lei stessa ha trascorso molto tempo da bambina, dal momento che i nonni avevano una casa lì. Si tratta di paesaggi che in qualche modo hanno svolto un ruolo importante durante la sua formazione. Ad ogni modo, usando questi paesaggi come sfondo non volevo creare una sorta di “illustrazione” dei suoi testi, quanto creare uno spazio aperto in cui si possono ascoltare con attenzione i suoi testi.
M. P.: Nel documentario si può vedere Elfriede Jelinek soltanto nei filmati d’archivio, non è stata realizzata alcuna intervista per l’occasione. Questa è stata una sua scelta fin dall’inizio?
C. M.: Da molto tempo Elfriede Jelinek si è ritirata a vita privata e sapevo che non rilascia più interviste, quindi non volevo concentrarmi principalmente su questo. Solo dopo aver terminato alcuni passaggi essenziali col film abbiamo avuto modo di parlare, dal momento che avevo ancora delle domande aperte. Però non ho mai pensato di andare da lei e filmarla direttamente, questo non era nei miei piani. Volevo fare un film che si concentrasse principalmente sulle sue opere e solo alla fine del film abbiamo fatto un’altra intervista, ma soltanto per chiarire alcuni miei dubbi. E comunque nei materiali d’archivio avevo già trovato tante interviste che lei ha rilasciato negli ultimi anni.
M. P.: Quali sono stati gli aspetti più difficili durante la realizzazione del film?
C. M.: La scelta dei testi. C’era davvero tantissimo materiale a disposizione. E anche montare i testi in successione, poi, è stato piuttosto difficile.
M. P.: Lei ha incontrato Elfriede Jelinek soltanto una volta prima di iniziare le riprese. Com’è andato il vostro incontro? Aveva un po’ paura dell’idea che qualcuno volesse fare un film su di lei?
C. M.: Sì, inizialmente era un po’ preoccupata, ma poi le ho detto che non volevo fare un film sulla sua vita privata, bensì sulle sue opere. Prima di incontrarla ero molto emozionata, ma anche un po’ preoccupata, poi però anche lei mi ha tranquillizzato ed è stata molto gentile. Le ho spiegato cosa avevo in mente, le ho anche spiegato che non sarebbe stato un lavoro interamente incentrato su interviste che lei aveva rilasciato. Di materiale del genere c’è n’è già tanto e lei stessa ha raccontato tanto nel corso degli anni. Mi interessava soprattutto mettere in risalto le sue opere e quello a cui ha dato vita nel corso degli anni.
M. P.: Parliamo un po’ della Sua carriera. Ci sono particolari registi o correnti cinematografiche che per Lei sono stati quasi un modello?
C. M.: All’inizio della mia carriera ho lavorato spesso con Peter Greenaway, che mi ha insegnato molto per quanto riguarda la composizione dell’immagine e mi ha ispirato molto con i quadri che era solito realizzare per le sue scenografie. Peter Greenaway è anche un regista che si lascia influenzare molto dalla pittura. Una volta ho fatto per lui una ricerca su Saskia Rembrandt, la moglie di Rembrandt, ed è stato molto interessante. Lui si è sempre ispirato a una certa iconografia e questo mi ha molto ispirato, così come le lente carrellate che egli fa. Con lui ho imparato a curare molto l’estetica nei miei film. Al contempo sono stata ispirata anche da molti pittori. Una volta ho anche fatto un film su VALIE EXPORT e i suoi film sperimentali mi hanno molto entusiasmato, oltre al suo modo di lavorare. Diciamo che nella mia vita mi sono lasciata ispirare da diverse fonti, non soltanto da registi, ma anche dal mondo della pittura.
M. P.: Lei ha realizzato spesso film su importanti artisti da tutto il mondo. C’è un artista in particolare su cui vorrebbe realizzare il Suo prossimo film?
C. M.: Non so se la cosa andrà in porto, perché ancora non ho iniziato il progetto, ma da circa sette anni sto cercando di realizzare un film sulla scrittrice americana Carson McCullers, che ha scritto un libro molto interessante, Il Cuore è un Cacciatore solitario, probabilmente il suo libro più famoso. Lei non è molto famosa in Europa, ma ad ogni modo mi interessa far conoscere anche artisti meno noti o che sono stati dimenticati, che però hanno creato opere straordinarie. Questo libro di Carson McCullers parla di razzismo e di emarginazione ed è ambientato all’incirca negli anni Trenta o Quaranta. Queste sono tematiche che trovo particolarmente interessanti e che ancora oggi sono molto attuali.