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di Maya Sarfaty
voto: 7
Da un raffinato lavoro su fotografie d’epoca Liebe war es nie di Maya Sarfaty trae la sua più brillante intuizione, creando, di volta in volta, ulteriori fotomontaggi, i quali, sempre più articolati e attentamente montati in 3D, ci conducono per mano nel mondo di Helena e Franz, per una storia d’amore e di sofferenza dove un consueto approccio documentaristico lascia il posto a una drammatizzazione che ben sa coniugare materiali del passato e tecniche del presente.
Immagini di un amore impossibile
Tutto ebbe inizio da una canzone: Liebe war es nie – Non è mai stato amore. Un titolo, il presente, che mette in discussione una delle più insolite storie d’amore mai esistite e che viene interamente ripreso dalla regista Maya Sarfaty per il suo ultimo documentario. Ma qual è la storia d’amore qui raccontata? In realtà, più che di una storia d’amore vera e propria, possiamo parlare di un amore bruciante che, a causa di numerose condizioni avverse, non ha mai potuto trovare un suo compimento: l’amore che per anni ha legato il giovane ufficiale delle SS Franz Wunsch a un’affascinante prigioniera di Auschwitz di origini ebraiche, la bella Helena Citron.
Liebe war es nie, dunque, è anche il titolo di una canzone che Helena ha dovuto intonare davanti agli ufficiali, in occasione del compleanno di uno di loro. Ed è stato proprio in quel momento che il giovane Franz si è innamorato di lei, rapito dalla sua voce da usignolo. E più la ragazza cantava, più i suoi occhi acquistavano umanità. Al punto di spingerlo ad aiutare la ragazza, le amiche di lei e la sorella Rosa durante tutto il periodo della prigionia.
Fu vero amore? Per quanto riguarda Franz, Helena venne da lui per sempre considerata il più grande amore della sua vita. E per molti e molti anni si dilettò a creare dei fotomontaggi ritagliando una sua foto, scattata da lui stesso ad Auschwitz, e incollando la sua testa su altri corpi, con altri abiti e all’interno di contesti diversi.
Ed è proprio da questo lavoro su fotografie dell’epoca che Liebe war es nie di Maya Sarfaty trae la sua più brillante intuizione, creando, di volta in volta, ulteriori fotomontaggi, i quali, sempre più articolati e attentamente montati in 3D, ci conducono per mano nel mondo di Helena e Franz, per una storia d’amore e di sofferenza dove un consueto approccio documentaristico lascia il posto a una drammatizzazione che ben sa coniugare materiali del passato e tecniche del presente, conferendo all’intera storia una soddisfacente fluidità. Una tecnica, la presente, più e più volte utilizzata, anche in ambito documentaristico, questo sì. Eppure, qui, fatta eccezione per sporadiche interviste, fa da protagonista assoluta durante l’intero lavoro.
Il volto giovane e sorridente di Helena, dunque, stride fortemente con la sua uniforme da deportata. Ed ecco che, immediatamente, vediamo la ragazza in piedi, al centro di una baracca, circondata da ufficiali e altri internati, tutti intenti a sentirla cantare. E, ancora, figure di compagne di lavoro che la guardano con invidia e parlano alle sue spalle a causa di tutti i trattamenti privilegiati ricevuti, corpi stesi al suolo dopo numerose percosse e immagini di bambini – i nipotini della stessa Helena – sorridenti prima di essere deportati. Fino ad arrivare, molti anni dopo, addirittura all’interno dell’aula di un tribunale.
Cinema e fotografia, computer grafica e vecchi filmati di repertorio sono qui, dunque, perfettamente in grado di coesistere, dando vita a una storia più che controversa, dove il rapporto tra vittima e carnefice si fa assai più complesso di quanto si possa immaginare e dove non si sa mai realmente dove sia il confine tra amore vero e proprio e lotta alla sopravvivenza.
Liebe war es nie. Non è mai stato amore. O forse no? La regista fa di questa ambiguità di fondo uno dei suoi cavalli di battaglia. E la cosa funziona. E contribuisce a rendere il tutto ancor più complesso e stratificato di quanto potesse inizialmente sembrare, con tanto di personaggi che prendono vita sullo schermo prepotenti e dalle forti e ben delineate personalità. Ed ecco che un altro capitolo di storia sconosciuto ai più viene finalmente reso noto. E la Storia stessa assume, qui, i tratti di una favola immaginaria. Una favola che, nonostante tutto il suo romanticismo, non può che far male come un pugno allo stomaco.
Titolo originale: Ahava Zot Lo Hayta
Regia: Maya Sarfaty
Paese/anno: Israele, Austria / 2020
Durata: 86’
Genere: documentario
Sceneggiatura: Maya Sarfaty
Fotografia: Ziv Berkovich
Produzione: Langbein & Partner Media, Yes Docu