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In occasione della Viennale 2020, che quest’anno, malgrado la pandemia, sta avendo luogo in tutta sicurezza e con un programma come di consueto ricco e variegato, Cinema Austriaco ha avuto l’occasione di fare una chiacchierata con la direttrice artistica Eva Sangiorgi. Con lei si è parlato di questa particolare edizione, dell’importanza di mantenere vivo e attivo il contatto con il pubblico e, più in generale, di quanto siano importanti, al giorno d’oggi, i festival cinematografici. Intervista a cura di Marina Pavido.
Marina Pavido: Cosa vuol dire dirigere un festival della portata della Viennale all’epoca del Covid?
Eva Sangiorgi: Ci sono delle cose positive e delle cose negative. Alla base c’è la storia di un festival incentrato principalmente sulla relazione con il pubblico. E anche se tutti i festival, in un modo o nell’altro, hanno questo scopo, la Viennale nasce proprio come festival dedicato al pubblico e alla città: un mix perfetto di queste esperienze, che permette di camminare da un cinema all’altro, visitando, di volta in volta, i cinema storici. In pratica, un festival esclusivamente audience-focused. E in una situazione come questa una possibile alternativa online non avrebbe alcun senso, a mio avviso.
Al contempo, però, capisco le scelte di altri colleghi, perché bisogna giustificare le proprie attività, il proprio lavoro, perché bisogna dare lavoro a un team. E in questo senso andare online è anche un modo di mantenere il progetto. Per la Viennale questa possibilità non c’era e quindi si è rischiato quasi di non fare nulla. Però, fortunatamente, ci è andata molto bene e abbiamo anche avuto modo di riconsiderare il valore di un festival in un momento come questo. E quindi, la decisione di far sì che la Viennale avesse luogo si è convertita anche in un gesto politico. Non è stato facile avere a che fare con le diverse difficoltà e con le varie pressioni, ma alla fine ci è andata bene.
Volendo parlare di dettagli organizzativi, è stato un bel caos. Ma con dei risvolti positivi. In questo caso tutti i procedimenti a cui eravamo stati abituati e che io stessa ho ereditato – perché, comunque, la Viennale ha ben cinquantotto edizioni all’attivo – sono stati messi in discussione e tutti i programmi si sono dovuti rifare. E la cosa non è stata affatto semplice. Però, allo stesso modo, abbiamo avuto l’opportunità di pensare a nuove soluzioni e di tentare nuove strade con un rischio minore, dal momento che eravamo comunque giustificati dalla situazione di emergenza in cui ci trovavamo. Ad esempio, anche uscire dal centro storico per estendersi anche ad altri cinema, in alcuni casi ha creato un po’ di panico, ma poi è stata comunque un’opportunità per creare nuove sinergie e per dare in qualche modo una mano anche a cinema – molti dei quali indipendenti – che esattamente come noi, se non più di noi, si sono trovati in difficoltà.
M. P.: La Viennale, comunque, anche quest’anno vanta un programma molto ricco e variegato. Com’è andata, nello specifico, con il processo di selezione?
E. S.: Fortunatamente abbiamo potuto visionare molto materiale online. Poi, in ogni caso, quest’anno abbiamo potuto girare poco, molti festival sono stati cancellati e via discorrendo. Noi, comunque, abbiamo la regola che un film debba essere una première austriaca, tranne per una specifica carte blanche che abbiamo creato quest’anno, ossia la sezione della Diagonale. Questo, comunque, ha creato un po’ di problemi, soprattutto per quanto riguarda il geo block. Se non avessimo potuto visionare determinati film, non avremmo potuto programmare nulla, quindi questo è stato un punto fondamentale da discutere, anche con altri organizzatori di festival. Ma alla fine, sempre adattandosi alla situazione, siamo riusciti a mantenere lo stesso criterio dell’esclusività austriaca.
Per quanto riguarda il mio lavoro di selezione, credo di aver visto ancora più film del normale, anche se quest’anno in programma ce ne sono meno. Per quanto riguarda alcuni film – tra cui, ad esempio, quelli della lista di Cannes – non è stato semplice gestire la cosa e alcuni sono dovuti restare fuori.
Ad ogni modo, la voglia di far partire il festival era tanta, da parte di tutti. Abbiamo avuto moltissime richieste anche prima di aprire il nostro, seppur blando call for entries.
Comunque, come dicevo, quest’anno il programma è più ristretto. Il festival, in genere, è sempre durato due settimane, mentre quest’anno l’ho ristretto a undici giorni. Questa è stata una delle prime decisioni prese, in modo da avere meno rischio d’azione e di poter risparmiare soldi, in quanto più di un quinto delle entrate della Viennale si basa sulle entrate al box office delle due settimane di festival. E in più c’era anche la questione di dover limitare i posti, tenendo anche in conto il fatto che molti spettatori potessero essere restii a entrare in una sala cinematografica di questi tempi. Però, dall’altro canto, abbiamo aumentato le sale.
Ad ogni modo, se normalmente ci sono circa centonovanta lungometraggi della selezione ufficiale, in questa edizione sono stati ridotti a circa centoventi.
M. P.: Torniamo per un attimo indietro nel tempo: tu hai fondato il festival cinematografico FICUNAM di Città del Messico e lo hai diretto fino al 2018. Cosa è cambiato per te, professionalmente parlando, una volta a capo della Viennale?
E. S.: Tantissime cose. Innanzitutto, dal mio punto di vista personale, ho un contratto, cosa che non avevo mai avuto prima (ride, n. d. r.). E parliamo anche di un contratto della durata di otto anni. Per quanto riguarda il FICUNAM, ho sempre cercato di istituzionalizzarlo e attualmente i due direttori sono riusciti finalmente ad avere un contratto amministrativo all’interno dell’università da cui parte tutto.
Poi, comunque, qui, rispetto a prima, ho un altro tipo di responsabilità: qui, fortunatamente c’è un team che sa fare il proprio lavoro, la struttura, in generale, è molto più solida. Per cui, molte responsabilità che avevo prima – tra cui, ad esempio, anche pagare la luce – mi sono state tolte. Al FICUNAM mi occupavo davvero di ogni singolo aspetto organizzativo, persino di scegliere il colore dei manifesti. Era davvero un progetto familiare.
Qui c’è molta più esperienza, c’è un team che lavora tutto l’anno, ci sono diversi dipartimenti che possono occuparsi dei diversi dettagli di produzione. E questo ti dà molto più tempo per pensare ad altre cose. Però, dall’altro canto, per quanto riguarda altri aspetti, le mie responsabilità sono aumentate in modo esponenziale. Da un certo punto di vista può essere più stressante, mentre da un altro è indubbiamente più rilassante.
Un’altra mia problematica iniziale è rappresentata dal fatto che non parlo tedesco, per cui il primo anno la mia grande responsabilità è stata la selezione dei film e la costruzione di un concetto curatoriale. Per il resto, ognuno ha svolto il proprio lavoro in modo impeccabile, senza che io potessi per forza capire i dettagli. Dopo tre anni, invece, riesco a entrare molto nel dettaglio, nonostante la mia barriera linguistica: ormai il tedesco lo capisco.
Ad ogni modo, qui mi sento più rilassata, perché grazie al mio team, quando mi sveglio la mattina non devo più preoccuparmi che tutto succeda, perché so che, in ogni caso, succede.
M. P.: In che modo ti è stata di ispirazione la figura di Hans Hurch, storico direttore della Viennale?
E. S.: Lo conoscevo da prima di venire a occupare questo ruolo, ammiravo molto la Viennale e il modo in cui era pensata. Alla fine ho mantenuto questo standard, attuando solo minimi cambi strutturali. Lui stesso ha costruito un festival con questa impostazione: un festival senza competizione, inclusivo, meno accondiscendente rispetto ad altri grandi festival. E questo ti dà uno spazio di libertà enorme che percepisci immediatamente se sei un appassionato di cinema e se lavori in questo settore. Questo, comunque, è ciò che ho sempre ammirato. Ovviamente io sono un personaggio differente, sono una donna, sono di un’altra generazione, non sono nata e cresciuta in una città imperiale, sono molto più comunitaria nel modo di gestire, ma mi piace questa autorità nell’esprimere una decisione. In termini generali, quello che mi è sempre stato d’ispirazione nel modo di lavorare di Hans è il coraggio di fare determinate scelte, di aver costruito un festival di godimento, che si prende cura degli ospiti, che ti permette di rilassarti. E anche la città, dal canto suo, ne è piuttosto entusiasta.
M. P.: Per quanto riguarda il cinema austriaco, oltre ai film della selezione ufficiale, vi sono importanti sezioni curate dal Filmarchiv Austria e dall’Austrian Filmmuseum. Quest’anno, però, data la situazione, per la prima volta la Viennale e la Diagonale si trovano a condividere uno spazio. Potrebbe mai continuare questa collaborazione un domani, anche una volta passato questo periodo di crisi?
E. S.: No, questo non sarà possibile. Anche se ognuno di noi svolge il proprio lavoro molto bene, il nostro è un festival internazionale, mentre il loro tratta esclusivamente il cinema austriaco. E anche se siamo entrambi dei festival grandi, dei festival che hanno molti punti in comune, si tratta comunque di due realtà differenti.
M. P.: Ad ogni modo, sia la Viennale che la Diagonale vantano, oggi, dei direttori artistici molto giovani. Come risponde, al contempo, il pubblico dei giovani e dei giovanissimi al festival?
E. S.: Ci sono moltissimi giovani che vengono alla Viennale. Poi, comunque, in condizioni non pandemiche, abbiamo delle collaborazioni con delle scuole superiori che funzionano molto bene, con proiezioni speciali al Gartenbaukino. E anche per quanto riguarda il pubblico pagante i risultati sono molto soddisfacenti. Era stata un’idea mia, tempo fa, creare un biglietto speciale ridotto per gli studenti. E anche se la Viennale ha comunque una buona fetta di pubblico formata dai suoi cinéphiles storici, vi sono anche molti ragazzi che ne prendono parte.
M. P.: Dal momento che, soprattutto durante la pandemia, molte piattaforme di streaming si sono ulteriormente rafforzate, in che modo potrebbe cambiare un domani, secondo te, la fruizione e la vita stessa di un festival cinematografico?
E. S.: Me lo sto domandando spesso. Non sono sicura di sapere cosa succederà, ma credo che se i festival inizino a spostarsi pian piano tutti online, inevitabilmente finiranno per decimarsi. Allo stesso modo, un festival in presenza abbraccia un pubblico universale, mentre i festival online arrivano solo a chi ha maggiore dimestichezza con le tecnologie varie. E, allo stesso modo, fare una selezione esclusivamente online diventerebbe quasi redigere una lista e non più organizzare un evento. Per questo credo che saranno soprattutto i festival più grossi a resistere. E questo mi fa insistere ancora di più sull’importanza di organizzare un festival in presenza.
Ad ogni modo, in tutto il mondo ci sono tantissimi festival. Ad esempio, quando sono arrivata in Messico c’erano in tutto una trentina di festival in tutta la nazione, mentre quando sono andata via, dopo sedici anni, ce n’erano centoquaranta. E questo ha creato delle opportunità locali, permettendo a chiunque di seguire un festival. E seppure sia importante che ogni festival abbia una propria identità, è estremamente essenziale che di festival locali ce ne siano parecchi, in modo di arrivare il più possibile alla gente, di fare un festival per la gente e non solo per gli addetti ai lavori.
M. P.: Quanto è potente, oggi, un festival cinematografico, in quanto strumento politico e di aggregazione?
E. S.: Moltissimo. Ancora più di prima. Soprattutto perché il cinema è in crisi, i cinema sono in crisi e senza un particolare evento, la frequenza in sala andrebbe inevitabilmente scemando. Lo vedo anche quando c’è la Viennale: le sale si riempiono e la gente vuole far parte di un evento storico in un luogo specifico. Questo è il grande potere di un festival.
M. P.: Un’ultima domanda a bruciapelo: dimenticando per un attimo il tuo lavoro, il cinema per te è…?
E. S.: Il mio lavoro! (ride, n. d. r.) Scherzi a parte, il cinema per me è un buco nero che dall’altra parte ha mille cose. Una sorta di salto in un’altra dimensione, pur restando sempre nello stesso luogo.