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di Michael Haneke
voto: 8
In Il settimo Continente, opera prima per il cinema di Michael Haneke, ciò a cui assistiamo è il progressivo e repentino disgregamento della famiglia borghese contemporanea osservato e trattato con fare quasi schnitzleriano, con tanto di sorda violenza onnipresente ma mai realmente rappresentata davanti ai nostri occhi. Tema costante, questo, all’interno della nutrita filmografia hanekiana.
In principio era già Haneke
Accadeva che nel maggio 1989, durante la 42° edizione del festival di Cannes, veniva presentato, all’interno della Quinzaine des Réalisateurs, Il settimo Continente, l’opera prima (per il cinema) di un regista che già da qualche anno aveva avuto modo di far parlare di sé all’interno dei confini austriaci, grazie a numerosi e pregevoli lavori realizzati per il piccolo schermo. Tale interessante cineasta rispondeva al nome di Michael Haneke, colui che sarebbe destinato a diventare, negli anni successivi, uno dei nomi maggiormente noti – al di fuori dei confini nazionali – della cinematografia austriaca contemporanea. E così, con il presente Il settimo Continente – il quale, sin da subito, ha ottenuto una buona accoglienza sia da parte del pubblico che della critica – ha ufficialmente preso il via la cosiddetta Trilogia della glaciazione (di cui fanno parte anche Benny’s Video, del 1992, e 71 Frammenti di una Cronologia del Caso, realizzato nel 1994). Una trilogia, la presente, distintasi sin da subito per la grande lucidità e la spietata sincerità nel caratterizzare fin nei minimi dettagli la società odierna.
Al giorno d’oggi, dunque, ormai in molti abbiamo avuto la possibilità di conoscere il celebre cineasta austriaco, anche se non tutti hanno avuto modo di visionare le sue prime opere. Eppure, a ben guardare, già durante questi suoi primi lavori si possono riconoscere i principali segni distintivi della sua soggettiva cinematografia. Ma andiamo per gradi.
Nato dall’idea di realizzare la (libera) trasposizione cinematografica di un fatto di cronaca che ha visto il presunto suicidio di un’intera famiglia (caso, tuttavia, mai del tutto risolto), Il settimo Continente ci mostra le vicende – spalmate nell’arco di tre anni, dal 1987 al 1989 – di Georg (Dieter Berner), di sua moglie Anna (Birgit Doll) e della loro figlioletta Evi (Leni Tanzer). Un’esistenza, la loro, fatta di momenti monotoni e ripetitivi, dove i gesti sono quasi automatici, senza che gli stessi personaggi facciano quasi caso a ciò che realmente si sta facendo. Ciò viene reso particolarmente bene sia dalla partizione in tre atti (all’interno di ognuno dei quali i rituali del quotidiano vengono ripetuti in modo eccessivamente meccanico, ma, altresì, meticoloso, addirittura quasi maniacale), sia dalle stesse inquadrature della macchina da presa, dove grande spazio si dà proprio agli oggetti e grazie alle quali lo spettatore stesso deve attendere non poco prima di poter guardare in faccia gli stessi protagonisti. Un’esistenza all’interno della quale è la solitudine di ognuno di loro a fare da protagonista assoluta. La stessa solitudine che ha spinto la piccola Evi a fingersi cieca, cercando, così, la compassione (e l’affetto) di compagni di scuola e maestre.
Un lavoro, il presente, dove, di fatto, la mano di Haneke si sente più che mai matura, sicura e autoritaria. Lo dimostrano i numerosi elementi fuori campo (tra cui, appunto, gli stessi protagonisti, di cui inizialmente sentiamo solo le voci), così come quella forzata, poco rassicurante normalità che fa presagire qualcosa di terribile, per una famiglia, questa di Il settimo Continente, il cui equilibrio iniziale viene stravolto da un avvenimento (la morte della madre della protagonista) che, di fatto, non vediamo (in quanto già accaduto nel momento in cui le vicende prendono il via), ma che altro non fa che dare il la a un vero e proprio tracollo esistenziale. Un tracollo che, malgrado il sogno remoto di scappare alla volta di mete lontane (nel nostro caso, l’Australia), sembra non voler dare scampo ai protagonisti.
In poche parole, ciò a cui qui assistiamo è il progressivo e repentino disgregamento della famiglia borghese contemporanea osservato e trattato con fare quasi schnitzleriano, con tanto di sorda violenza onnipresente ma mai realmente rappresentata davanti ai nostri occhi. Tema costante, questo, all’interno della nutrita filmografia hanekiana, il quale ha fatto da leit motiv alla già citata trilogia e che, recentemente, ha visto il proprio (definitivo?) compimento nell’ottimo, lucidissimo e terribilmente spietato Happy End (2017). Interessante, a tal proposito, il fatto che entrambe le bambine protagoniste abbiano lo stesso nome: Evi in Il settimo Continente, Eve in Happy End, appunto, entrambe dimostratesi, in un modo o nell’altro, i personaggi più umani di entrambi i lungometraggi, all’interno dei quali di umano v’è, di fatto, tristemente ben poco. Sarà solo un caso?
Titolo originale: Der siebente Kontinent
Regia: Michael Haneke
Paese/anno: Austria / 1989
Durata: 104’
Genere: drammatico
Cast: Birgit Doll, Dieter Berner, Leni Tanzer, Udo Samel, Silvia Fenz, Robert Dietl, Elisabeth Rath, Georges Kern, Georg Friedrich
Sceneggiatura: Michael Haneke, Johanna Teicht
Fotografia: Anton Peschke
Produzione: Wega Film