Warning Triangle gioca sapientemente con pochi, semplici elementi che rappresentano, al contempo, dei veri punti cardini della storia del cinema, mai del tutto obsoleti, ma sempre attuali e accattivanti. E così, inevitabilmente, notiamo anche una sottile ironia, insieme a una sincera riverenza nei confronti non soltanto dei film qui citati, ma anche nei confronti di tutta la settima arte.
Il mio miglior Nemico è un lungometraggio dal respiro internazionale, che si rifà molto al cinema mainstream statunitense e che nell’insieme ci appare “confezionato” in modo impeccabile. La Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto vengono raccontati in Austria in un film importante, in cui, di fianco alla storia dei due amici/nemici e al drammatico conflitto bellico viene anche realizzato un grande omaggio al mondo dell’arte e alla bellezza.
In Heldenkanzler viene osservata da vicino l’inquietante figura di Engelbert Dollfuss, la cui voce fuoricampo ci racconta gli ultimi anni della sua vita. Disegni bidimensionali, un costante bianco e nero solo saltuariamente “contaminato” dal rosso della bandiera nazionalsocialista o di pochi altri particolari delle scenografie rappresentano alla perfezione la cupezza degli anni Trenta.
Still Life non è assolutamente un film “semplice”. Al contrario, ogni minima sfaccettatura delle personalità dei protagonisti viene ben resa dalla macchina da presa di Sebastian Meise in modo mai retorico o prevedibile. I primi piani sui loro volti, le confessioni, le chiacchierate in macchina o sulla banchina di una stazione, ma anche i gesti estremi conferiscono umanità a ognuno di loro.
Barylli’s Baked Beans vuole essere proprio questo: una sorta di “manuale d’amore” universale che ci mostra tanti possibili scenari e altrettante soluzioni, ma che, tuttavia, non sembra credere molto in un “banale” lieto fine.
Una grande malinconia e un profondo senso di solitudine pervadono Whores’ Glory. Un documentario corale, variopinto, ma anche incredibilmente toccante e desolante. Non una, ma tante storie che soltanto lo sguardo attento e sensibile di Michael Glawogger avrebbe potuto raccontare così bene.
Non servono didascalie aggiuntive, in Evolution of Violence. Le immagini parlano da sé. Cinema del reale nella più pura delle sua accezioni. E questo coraggioso lavoro di Fritz Ofner, con una messa in scena fortemente minimalista, vuole soprattutto fare da denuncia a un sistema che va avanti ormai da troppo tempo.
Diviso in sette capitoli, Low Definition Control si concentra principalmente sul lavoro che le grandi istituzioni – vedi, ad esempio, la polizia o anche la medicina stessa – compiono affinché ogni qualsivoglia aspetto della nostra quotidianità venga costantemente monitorato. Ed ecco che, pian piano, è l’atto del vedere in sé che viene messo sotto i riflettori. L’atto del vedere osservato perfettamente in parallelo con il cinema stesso e con le connotazioni che lo stesso ha assunto in epoca postmoderna, dove ormai non c’è più nulla che viene celato all’occhio dello spettatore e dove è lo spettatore stesso a voler vedere di più. Sempre di più.
A poco serve l’indubbio carisma di Felicity Jones. A poco servono riusciti siparietti comici messi in scena da Bernhardt, custode dello chalet impersonato dall’austriaco Gregor Bloéb: Chalet Girl di Phil Traill – frutto di una coproduzione tra Gran Bretagna, Germania e Austria – è, purtroppo, una commediola piatta e priva di mordente, che vede al proprio interno risvolti alquanto prevedibili e talvolta anche forzati.
Con un approccio registico il più possibile essenziale – e con evidenti influenze da parte del cinema di Michael Haneke – Markus Schleinzer – insieme a Kathrin Resetarits – ha effettuato in Michael un sapiente lavoro di sottrazione nel mettere in scena le vicende dei due protagonisti. Un lavoro di sottrazione fatto di inquadrature essenziali, camera fissa e dialoghi ridotti all’osso. In concorso al Festival di Cannes 2011.